Artisti in Lucania

Tursi



Albino Pierro

 

 

I Pierro
erano famiglia di signori, a Tursi. Abitavano nel palazzo ("u pahazze"). Finché era nei confini casalinghi, il giovane Albino era obbligato a parlare italiano: quello raffinato e coltivato d'una famiglia di giuristi e professori. Fuori delle mura, c'era il dialetto. "E io ne ero incantato" dice il poeta. "Mi piaceva ascoltarlo dai contadini: nei loro racconti, la descrizione d'un temporale, un evento naturale diventava un fatto terribile e misterioso, una fiaba". Così, al figlio dei signori, il popolo dette il latte e la poesia, il senso del magico. Era il cielo, non la fisica né la logica, a Tursi e nell'infanzia di Albino Pierro, a regolare il corso delle cose. "Venni dato per morto", narra il poeta. "Mi avevano già vestito e messo nella bara. La nutrice disse d'aver udito, a un tratto, il grido di mia madre morta. Io ne fui riscosso e tornai a vivere. Me lo riferiscono le mie zie. Ero troppo piccolo per ricordare". Suo padre si risposò, altre due volte: furono le zie Assunta e Giuditta ad allevarlo. "Avevo debole salute e gli occhi sempre arrossati. La mia nutrice tentò un rimedio popolare: impacchi d'ortica. Le cose peggiorarono. A quattro, cinque anni quasi cieco, fui costretto a restare sempre al buio. Imparai a suonare il mandolino. Cantavo bene. Più tardi, con i miei due fratelli, tenni concerti in paese. La gente veniva, - per la voce di Don Albine- ". Un oculista, a Roma, scongiurò il peggio: "il ragazzo potrà leggere tanto da diventare professore universitario, non cieco". E per Albino si aprirono la biblioteca di casa e quella, ancor più fornita, dei Capitolo, vicini e parenti stretti. "Durante l'estate, dopo pranzo, alla controra", rammenta, "si doveva dormire per forza. Io mi rannicchiavo vicino al balcone e, alla luce che passava dallo spiraglio, leggevo i russi. Anche Shakespeare, anche i francesi, ma i russi mi hanno formato. Calcolavo quante pagine ogni quarto d'ora. Oggi non tocco più un romanzo. Non si può, dopo i giganti, dopo Dostoevskij". Il palazzo dei Pierro è nel quartiere della Rabatana, fondato dai saraceni. E' il più vecchio del paese, che pare precariamente posato su una collina di creta e sempre sul punto di scivolare in basso, lungo i calanchi. Il giovane Pierro amava palazzo, Rabatana, paese e collina. Soffrì quando dovette trasferirsi, per continuare gli studi, prima a Taranto, poi a Salerno e a Sulmona. Scappò più volte dai collegi. "A me piaceva leggere, non studiare. Non ero un buon allievo". Ma ebbe buoni insegnanti, che lo capirono e aiutarono. "A Salerno, Felice Villani, professore d'inglese, m'insegnò a capire la poesia. A Sulmona, Mario Zangara mi spronò a coltivarla. Ha poi scritto due libri su di me". Ma dopo il primo anno di liceo, Albino Pierro segue a Udine suo cugino Guido Capitolo e smette di andare a scuola. "Finalmente potevo non far altro che leggere: Benedetto Croce, i filosofi, letteratura straniera. I libri mi arrivavano a pacchi". In estate si trasferì in Carnia, presso Tarvisio e conobbe Waldi, il montanaro. "Aveva fatto il giro del mondo, conosceva dieci lingue, ma vestiva di stracci e viveva di piccole commissioni, scriveva elogi funebri a pagamento. Mi insegnò il tedesco, a capire il respiro della natura. Mi innamorai violentemente d'una ragazza che, in seguito, si fece suora. Passavo giornate nella soffitta di Waldi a leggere le Confessioni di Sant'Agostino o la Bibbia in tedesco. Quando andai via, Waldi volle portarmi la valigia alla stazione. Aprì per me un passaggio nella neve, fino al treno. Lo vidi sparire tra fiocchi di neve". A Novara, presso lontani parenti, ancora niente scuola, ma un nuovo interesse (lo studio del pianoforte) e un nuovo amore: una ragazza toscana che voleva far la cantante. "Per lei, per poterla sposare, ero disposto anche a trovarmi un lavoro a Roma o a Lanuvio, dove, nel frattempo, mi ero trasferito, ospite di mio fratello". Fortuna volle che la pulzella amasse il canto più che Albino. Il quale ripiegò sullo studio, sino alla laurea. Ormai viveva a Roma, "sempre in cerca d'un posto fisso per mettere su famiglia". Attraversò la guerra, "senza capire niente, né allora né oggi, di storia e di politica. Anche se recensii opere filosofiche per la Rassegna nazionale, scrissi fiabe per il giornalino Balilla e una poesia per la morte del figlio di Mussolini, Bruno: il dolore aveva colpito il potente. In via Rasella ero appena passato, quando udii un boato: scampai alla strage e al rastrellamento dei tedeschi, sia allora sia in un'altra occasione, in via Nazionale". Pierro ricorda un'altra fuga: lui, la moglie e la figlia, in bicicletta, in una Roma invasa da gente impaurita. Ma il resto della guerra non gli pesò: frequentava centri culturali, conobbe scienziati e letterati. E scriveva tanto. Ma in italiano. "Non avevo mai pensato di usare il dialetto. Mi accadde, senza averlo davvero deciso, il 23 settembre del 1959. Ogni anno tornavo a Tursi e quella volta fui costretto a rientrare anticipatamente a Roma. E ne patii. Naque così, di getto, la prima poesia in tursitano: Prima di parte, prima di partire.Sei mesi dopo, era pronta la prima raccolta in dialetto: A terra d'u ricorde". Trent' anni dopo, oggi, Pierro resta senza spiegazioni su quell'evento. Dice: "i critici cercano di capire com'è nata questa mia nuova lingua. Io non lo so. C'era in me il disiderio di fare poesia e quello che mi urgeva dentro nacque in dialetto. Ma la mia volontà, in questo, non ebbe nessuna parte. Perché un giapponese scrive versi in giapponese ?". Sulla lingua scritta per la prima volta da Pierro, il dipartimento di lingue di letterature romane e della Scuola Nazionale ha pubblicato un'opera constata sei, sette anni di lavoro: Le Concordanze. Qualcosa come un dizionario costruito con l'elenco e il raffronto di tutte le parole pubblicate nei libri di Pierro. Solo il Porta e il Belli hanno avuto un simile omaggio. A Stoccolma organizzarono una serata in suo onore, in occasione dell'uscita del suo primo libro tradotto in svedese, nell' 82. Tre anni dopo, l'università della capitale scandinava lo invitò a recitare le sue poesie, per due ore, in tursitano. Una lezione, che registrata, ancora oggi è a disposizione degli studuiosi. "Mi hanno detto che uno di loro ama recitare una mia poesia, ma non in svedese, in tursitano", confida Pierro e poi se ne pente. "Non metta troppe cose, non scriva troppo di me", chide il poeta. "Non mi faccia apparire vanitoso e diverso da quello che sono, un uomo che vive da solitario, ma non solo: ho i miei libri". La sua piccola casa ne è piena. Don Albino continua la sua convivenza con la malferma salute, al primo piano d'una palazzina di piazza Ottavilla. Il suo unico cruccio: "Sono quasi due anni che non riesco a Tursi. Il palazzo era rimasto danneggiato dal terremoto ed è stato restaurato, non so ancora come. Al paese non mi rimane alcun parente, ne sono morti tanti". Ma proprio le poesie di Don Albino ricordano che in quei paesi del Sud i morti non sono mai completamente morti, finché accettano di continuare ad esistere in forme più modeste (un insetto, il vento, un qualcosa attorno ai vivi) e nel ricordo. E Tursi stessa, che avrebbe rischiato la scomparsa senza che nessuno ne sapesse niente "a Pietroburgo", ora ha qualcosa per esistere, essere segnalata. Prendete la carta turistica della De Agostini. Poche località citate. Tursi c'è, per questa ragione: "patria del più grande poeta dialettale contemporaneo: Albino Pierro".

articolo di Pino Aprile su OGGI di ottobre 1988